Cambiare squadra….

“Papà, ma perché non ci facciamo pure noi tifosi della Juve. Sto’ Napoli non vince mai niente. Gli amici miei mi sfottono sempre e io mi sono un po’ scocciato” 

Ci sono scene del  film personale  della nostra vita che rimangono  impresse in mente, chiare come se fossero immagini attuali, ma risalgono alla nostra infanzia. 

Magari non una riproduzione perfettamente fedele del fatto in sé, che probabilmente sarà stato  ampiamente edulcorato e modificato dal tempo e dal vissuto personale, ma che nel complesso, riportano un ricordo più o meno preciso e ci lasciano la convinzione che contesto, sguardi, sensazioni e magari anche qualche elemento del mobilio siano stati esattamente così come li abbiamo vissuti nella realtà.

Il momento in cui  dissi quella frase, quella domanda, è una di quelle scene che, per l’appunto,  stanno in un cassetto della memoria che non si è mai chiuso. Credo di ricordare anche la lenta e lunga elaborazione di quel pensiero e poi la meticolosa preparazione del territorio prima di sottoporre la delicata questione a mio padre.

A casa, pur non essendo noi napoletani di città, esisteva solo il Napoli. Sono stato educato dalla nascita ad avere una sola fede sportiva così come mi hanno cresciuto secondo i canoni di un cattolicesimo  estremamente osservante, ma alla fine, la religione calcistica è l’unica che continuo ancora a professare con assoluta devozione. Non ho avuto  parenti tifosi di altre squadre e in famiglia nessuno dubitava della sua appartenenza sportiva e territoriale. Nei due rami familiari, ovvero in quello materno e in quello paterno, che io ricordi, c’era una solo colore sportivo amato, accettato e professato ed era  l’azzurro del Napoli. 

Eppure……nel mezzo del cammin di nostra infanzia, mi ritrovai per una selva oscura, ché la diritta via era smarrita.

Colpa della distorta  cultura imperante che si basa solo sul valore della vittoria. Colpa degli amici infedeli. Colpa delle raccolte delle figurine panini e colpa anche degli almanacchi di calcio che riportavano tutti, impietosamente, gli  stessi numeri. Il mio Napoli, fino  alla metà degli anni ottanta, aveva vinto in tutta la sua storia, solo due coppe Italia e una coppa delle Alpi e mai, ma proprio mai, uno scudetto. Non un grande palmarés e non un grande appeal da squadra di successo a ben vedere.

Anche la stessa mascotte della squadra, il ciuccio, a dirla tutta, non giocava a favore. Tutte le altre squadre avevano come simbolo animali forti e muscolosi, o personaggi ammiccanti e dallo sguardo torvo. Tori, aquile, cavalli, serpenti, lupi, diavoli, dee, sirene, grifoni.    Noi invece avevamo questo equino indolente che, spesso ripreso dal di dietro, ci rivolgeva, uno sguardo sorridente e sornione quasi a voler anche lui stesso prenderci in giro. Onestamente, dava più l’impressione di essere in procinto di mollare una solenne e sguaiata scorreggia piuttosto che tirate un tiro fulminante a quel pallone sproporzionato che aveva davanti agli zoccoli.  Anche sulla mia calza della befana, l’animale ci faceva una figura alquanto meschina messo a confronto con quella del mio vicino con la sua zebra elegante, vezzosa e slanciata. Senza parlare del fatto poi che quella calza juventina dava pure sempre l’impressione di essere molto più grande e capiente della mia.

Maturai presto  la convinzione che, in aggiunta al  fatto di dover  essere preso in giro per gli scarsi risultati della mia squadra del cuore, ad ogni sei di gennaio i bambini tifosi delle   squadre Italiane più titolate, ricevevano pure molti più dolciumi e regali di me. Eccheccazzo! 

Nonostante il fare disinvolto e  l’approccio accorto che avevo studiato per affrontare la questione, credo che mio padre fosse invece già preparato alla domanda che stavo per porgli. A distanza di anni, mi sono persuaso che lui, in fondo, sapesse già dove mi avrebbero portato quei dubbi più volte espressi circa la delusione di dover seguire una  squadra che non vinceva mai niente e gli sfottò che bisognava pure sorbirsi. Può darsi che avesse studiato e valutato attentamente la strategia da applicare e preparato le  parole da dirmi nei minimi dettagli, ma è molto più probabile che la risposta che spense per sempre in me quel dilemma che oggi trovo assolutamente ridicolo, fu  spontanea,  sincera e dettata semplicemente dal cuore:

“Io mi sento napoletano e mi sento legato a questi colori e a questa terra.  È la mia terra, con tutti i suoi pregi e i suoi difetti e il Napoli in  modo o nell’altro, la rappresenta. È una questione di appartenenza. Forse un giorno lo capirai, ma il Napoli non è semplicemente una squadra di calcio per un napoletano. Che vinca o perda poco importa. 

Me lo ha insegnato mio padre, tuo nonno, e io resterò sempre di questa squadra. Tu, se vuoi, sei libero di tifare per la squadra che vuoi. Nessuno te lo impedisce”

Amen

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